La complessità

M.C. Escher, Relatività, 1953, litografia

La società attuale, definita “post-moderna”, si caratterizza per la pluralità e la specializzazione dei saperi: in ogni settore, infatti, la semplicità ha lasciato il posto alla complessità e sono ormai lontane le tranquillizzanti nomotetiche regole da applicare, tipiche del precedente periodo.
La logica della post-modernità è legata al consumerismo, alla costruzione di interventi “just in time” e ad un concetto di qualità specifico e particolare; fonda i suoi principi operativi nell’autonomia dei vari settori e supera la logica del sistema sociale regolato dall’alto, attraverso norme rigide e capillari,
con il decentramento amministrativo e l’applicazione del principio di sussidiarietà.
La complessità post-moderna richiede nuove riflessioni, nuovi approcci e nuovi interventi in ogni ambito. In prospettiva sociologica, con la multietnia e la multiculturalità nascono luoghi sociali alternativi e compensativi della monoetnia; alla filosofia dominante si sostituiscono le weltanschaung come pluralità di pensieri deboli; allo stato sociale assistenziale, il welfar state, si sostituisce il welfar mix per garantire interventi significativi ad personam. La comunicazione telematica ha provocato radicali trasformazioni tra centro e periferia e nei ruoli di egemonia tra gli spazi del pianeta; la globalizzazione porta alla mondializzazione delle finanze e dei mercati con perdite di grandi porzioni di storie locali e popolari.
Stringendo il grandangolo dal livello mondiale a quello locale si evidenziano ulteriori nuove situazioni legate, a monte, a diversi concetti di identità e cittadinanza. Appartenere al villaggio globale di INTERNET, essere cittadini europei, vivere il valore della differenza, della multireligiosità, della Persona, crea oggi domande forti circa il senso dell’identità.
È necessario sapersi muovere in un panorama così complesso con l’umiltà dell’hediggereiano “homo viator” che non cerca la sapienza come onniscienza, ma il criticismo quale strumento del pensiero dinamico.
Rousseau nell’Emile scriveva sostanzialmente un concetto simile: colui che vede bene l’ordine del tutto vede in esso ogni parte e per ciò più che la scienza ci proponiamo di conquistar giudizio. Edgar Morin, più modernamente, parla di costruire schemi cognitivi riorganizzatori quando, mutuando Montaigne, raccomanda di promuovere la crescita di teste ben fatte e non ben piene. La scuola deve formare “le teste”, guardando ai bisogni reali necessari.
 La mente si costruisce con gli strumenti che manipola, ed ogni epoca è legata agli strumenti di cui dispone: dai cunei di pietra alle pergamene miniate con penna d’oca siamo giunti alla duttilità di un file di word, e con essi l’uomo si è via via liberato dal lavoro manuale per dedicarsi alla riflessione; in altri termini diciamo che l’uomo di ogni tempo,  adattandosi all’ambiente culturale in cui si trova, costruisce il proprio pensiero. (Piaget, Vigotstkij, ma anche, dall’antropologia culturale, Gehelen con la teoria dell’Esonero).  Oggi è necessario possedere la capacità di muoversi nell’ipertesto globale utilizzando i link e i collegamenti più veloci. Su questo concetto Pierre Levy diceva che i progressi delle protesi cognitive a supporto digitale modificano profondamente le nostre capacità intellettuali, così come farebbero le mutazioni del nostro patrimonio genetico. Pare che il processo di ominazione non solo non sia terminato ma oggi subisca un’accelerazione improvvisa che non vede più lo sviluppo di intelligenze individuali ma, piuttosto, una straordinaria forma di intelligenza collettiva. Pertanto, non è più il tempo dell’individuo che conosce, dei sapienti, dei filosofi enciclopedici di memoria aristotelica; oggi si vive la dimensione dell’individuo con, che non vede nell’altro una minaccia ma una fonte di arricchimento, in quanto l’altro è portatore di conoscenze diverse dalle proprie. In conclusione, si tratta di riconoscere che la cultura globale è il prodotto di saperi complementari e che sono completamente cambiati anche i tempi e i luoghi della formazione. La prospettiva attuale della formazione è la lifelong learning, da intendersi come la nuova dimensione dell’educazione permanente, tracciata da Delors nel Rapporto UNESCO del 1995 e poi presente in tutti i documenti dell’UE relativi alla formazione, nel Memorandum del Consiglio Europeo, nelle Carte di Lisbona, Stoccolma e Barcellona. L’obiettivo è quello di creare modelli ispirati alle teorie del capitale umano, che permettano a tutti di impadronirsi degli strumenti utili ad acquisire la capacità di riconversione imposta dalle nuove sfide del mondo del lavoro, partendo dalla considerazione che per l’individuo emergono bisogni formativi diversi nei vari momenti dell’esistenza. Al percorso lineare scuola-formazione/ lavoro-pensione, quindi, oggi si deve sostituire la formazione permanente, anche secondo la proposta dell’UNESCO “One hour in day”, intesa come il  diritto universale minimo alla formazione: tutti devono poter dedicare liberamente un’ora al giorno, per tutto l’arco della vita, alla cura del proprio sviluppo intellettuale e della propria socialità.
Per soddisfare tale bisogni però, si deve tener presente che la scuola da sola non basta più: sono necessari nuovi spazi fisici oltre agli sconfinati spazi virtuali per garantire a tutti e a ciascuno l’opportunità di accedere al sapere. Affinché si possa realizzare un coordinamento psicopedagogico delle offerte delle varie agenzie formative sociali, la scuola, luogo intenzionale di azione e ricerca pedagogica, deve essere il centro strategico della rete dei servizi.
Cerini, in un interessante articolo apparso sul sito Ed.scuola, propone la costruzione di un POF territoriale e già in tale direzione si muove la Legge 328 del 2000 che prevede la realizzazione dei Piani Territoriali di Zona con il coinvolgimento, oltre che della Scuola e dei Servizi Sociali, anche del Terzo Settore, nella logica della progettazione partecipata, quale condizione post-moderna alla promozione di interventi di qualità.
È così che il piano pedagogico si intreccia con quello amministrativo e politico; la scuola, dove l’occhio lungo della filosofia dell’educazione, che va oltre l’ovvio e l’immediato, diventa pedagogia, cioè scienza poetica che si traduce in praxis didattica, attua compiti di tutela di tutti i soggetti coinvolti e assolve particolare funzione compensativa per i deboli che, più degli altri, rischiano di confondersi nella complessità.
Ripercorrendo il concetto teorizzato dai descolasrizzatori (come Illich, Althusser, ma anche John Dewey), si può certamente considerare limitante o non esaustivo il solo percorso scolastico e appare coerente che dovrebbe essere la società “vera” il posto per la concreta e rapida formazione dei giovani. Ma la suggestione della società educante, come la romantica prospettiva delle “comunità” come luoghi della libertà e della pluralità si scontrano con la crudezza e la quotidianità di tanti giovani che non solo non possiedono le bussole per orientarsi autonomamente ma che vivono esperienze pedagogicamente non sostenibili in contesti familiari deboli o deprivati. Solo i ragazzi più forti, sostenuti adeguatamente dalla famiglia, potrebbero muoversi nella complessità senza cadere nei gorghi dell’approssimazione o della strumentalizzazione. La scuola della società moderna si fondava sul principio “Dare di più a chi ha avuto meno”, e questo principio non si è perso con la post-modernità, anzi, si è arricchito dei valori della differenza e della pluralità.
La scuola della società post-moderna, quella della Riforma, infatti, ha la chiave di volta nel concetto di personalizzazione. Tutta l’architettura del sistema poggia su questo concetto: la Persona opposta l’alunno indistinto; si pone enfasi sull’essere umano piuttosto che sull’obiettivo da raggiungere. Si tratta di leggere i bisogni di ciascuno e di pensare e di operare per la crescita individuale. Il principio dell’aderenza alla Persona, alla sua unicità e irripetibilità, si basa su principi psicopedadagogici profondi e importantissimi che rimandano a Morin, Gardner, Ausubel, Bruner, Vigotstkij.
Il modo di pensare di ciascun individuo è connotato da individualità e diversità. Il pensiero individuale è il prodotto di una serie di diversificazioni prodotte dal modo di percepire, pensare, apprendere, ricordare, disporsi verso il mondo e verso gli altri, agire.
Ciascun individuo possiede un modo originale di elaborare le informazioni e di organizzarle intrecciando variabili quali emotività e relazionalità. L’intervento educativo deve ricercare, perciò, il “compito di sviluppo” di ogni allievo, contro ogni stereotipia. La personalizzazione, però, non è l’intervento individualizzato; si definisce individualizzato quell’operare che prevede metodiche particolari, non adatte al gruppo nel quale, per favorire l’integrazione, il soggetto è inserito. L’individualizzazione è propria della pedagogia speciale, mentre la scuola è organizzata sul gruppo classe, non a caso. Il gruppo determina particolari situazioni d’apprendimento grazie alla moltiplicazione degli io che nell’interazione aumentano le esperienze individuali e giungono alla liberazione catartica della spontaneità il cui blocco, come intuì Jacob Moreno, limita il potenziale creativo di ciascuno. Nel gruppo, però, ciascuno elabora le esperienze comuni in maniera personale, con i personali mezzi cognitivi e secondo le proprie esigenze e diventa “terapeuta di sé stesso”. Fattore fondamentale per il successo personale dei membri di un gruppo è la corretta conduzione e la capacità di leggere e gestire le dinamiche relazionali. Il progetto deve essere sempre quello di favorire il warming up process, cioè provocare maieuticamente le conquiste di ciascuno. Quindi, poiché questo processo è favorito dalle dinamiche di gruppo, per “personalizzare” il percorso formativo non serve l’intervento ad personam. I conduttori dei gruppi, i docenti, offrono situazioni didattiche all’intero gruppo classe, ma si apettano dal singolo alunno la conquista di una competenza adeguata al livello di padronanza pregressa. Senza voler banalizzare la complessità di un intervento personalizzato, credo sia doveroso sottolinearne la proficuità e la fattibilità. La condicio sine qua non è senz’altro l’osservazione scientifica dei bisogni: si tratta di “cercare la Persona” attraverso strumenti specifici.
Un piano personalizzato è dato dalla rilevazione dei dati, dall’elaborazione del profilo personale e dalla stesura dell’ipotesi di percorso didattico; risultano proficui a questo scopo i principi della psicosociodinamica e gli strumenti dell’analisi pedagogico-clinica. I dati necessari sono relativi al livello di maturazione, alle esperienze personali e familiari, al grado di relazionalità, senso del sé e motivazione, allo stile a al livello cognitivo ed interessi e propensioni. Sono rilevabili dalla somministrazione di semplici e affatto invasivi strumenti quali il foglio anamnestico, il Sociogramma, lo Story test, il colloquio clinico, i grafo test e l’osservazione dei docenti; opportunamente guidato ogni docente motivato sarà in grado di utilizzare questi strumenti e di spenderli in situazione di equipe pedagogica e con i genitori. In questo modo si attua una difesa dall’estemporaneità ascientifica e da approssimazioni pericolose in primis per i bambini, ma anche per l’intera scuola. Si procede cautamente quando si è consapevoli degli effetti che ogni gesto didattico può lasciare sui bambini; anche Guido Petter, nella sua “Valigetta”, ricordava innanzi tutto che insegnare significa lasciare un segno.
Per permettere la autoreferenzialità del sistema scolastico è tuttavia necessario, come consiglia Lichtner, partire dalla definizione di alcuni punti cardine evidenziabili nelle linee del POF: l’espressione di una precisa intenzionalità, una logica interna stabile ma anche capace di evolvere per il miglioramento delle performance, obiettivi concretamente legati ai bisogni del reale.
Tutti gli alunni sono deboli perché sono in crescita e molti sono in disagio. A parte i casi conclamati di bambini diversamente abili, per i quali è stato avviato il percorso di segnalazione che porta all’elaborazione del Profilo Diagnosi Funzionale a cura dell’equipe multidisciplinare dell’ASL, a scuola giungono pochissimi casi diagnosticati di disagio. Quasi sempre gli interventi nei confronti di questi alunni sono vaghi e affidati all’esclusivo buon senso di docenti generici. È necessario predisporre interventi compensatori e lo strumento è una rigorosa e dettagliata progettazione. Non essendoci modelli standardizzati da applicare, ogni scuola autonoma sceglie la sua architettura progettuale che terrà conto dei riferimenti normativi, le Indicazioni e gli obiettivi disciplinari e si svilupperà in Unità d’apprendimento. Al termine del percorso formativo le competenze acquisite e le conquiste significative vengono registrate nei Portfoli. Nella logica dell’apprendimento significativo, nata dalla teoria di Ausubel, ogni alunno raggiungerà la sua nuova competenza e sarà arricchito da esperienze “giuste”, che lasciano traccia. Solo nel giusto equilibrio tra skill e challeng, cioè tra le proprie risorse e il compito da affrontare (se il compito è percepito come troppo difficile dal soggetto si ingenera l’ansia e, viceversa, si è sentito come troppo facile, scatta la noia) sta la conquista di nuove abilità e competenze.
Lo scopo autentico dell’intervento didattico deve essere quello dell’orientamento; orientare significa sviluppare le competenze decisionali dei soggetti ed offrire loro gli strumenti per conoscere sé stessi, le proprie potenzialità e debolezze. Quello che dobbiamo insegnare ai ragazzi è “imparare ad imparare”, come il titolo del bel lavoro di Novak e Gowin; e ci possiamo riuscire fornendo loro metodologie e tecniche specifiche, ma anche luoghi e climi educativi che riducano le tensioni e favoriscano la motivazione ad apprendere. Il metapprendimento è la chiave didattica per favorire lo sviluppo degli strumenti transferiali del pensiero e  la formazione dello spirito critico.
Anche nel terzo millenni, quindi, la scuola sarà guida alla crescita anche con le limitazioni strutturali ed economiche nelle quali troppo spesso è costretta ad operare.

Si deve promuovere nella scuola un’atmosfera di partecipazione collettiva, ricca, come direbbe Papert, di germi matetici, cioè germi portatori di apprendimento.

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