La società attuale, definita
“post-moderna”, si caratterizza per la pluralità e la specializzazione dei
saperi: in ogni settore, infatti, la semplicità ha lasciato il posto alla
complessità e sono ormai lontane le tranquillizzanti nomotetiche regole da
applicare, tipiche del precedente periodo.
La logica della post-modernità è
legata al consumerismo, alla costruzione di interventi “just in time” e ad un
concetto di qualità specifico e particolare; fonda i suoi principi operativi
sull’autonomia dei vari settori e supera la logica del sistema sociale regolato
dall’alto, attraverso norme rigide e capillari, con il decentramento
amministrativo e l’applicazione del principio di sussidiarietà.
L’istruzione, come la sanità ed i
trasporti, è considerata un servizio sociale semipubblico, in quanto
eroga un servizio rivolto a molte persone che lo richiedono ed è aperto alla cogestione col privato. Proprio al settore semipubblico è stata rivolta una particolare attenzione relativamente alla qualità, sia a livello nazionale che internazionale. Il percorso realizzato in campo nazionale prende l’avvio nel 1995 con la Legge 273 che prevede la Carta dei servizi, ispirata sia a principi di carattere giuridico, come uguaglianza e imparzialità, che a principi aziendali, come la trasparenza, l’efficacia e la partecipazione. Prosegue con le profonde riforme della Pubblica Amministrazione, scandite dalla Legge Bassanini (N° 59/’97) e, in particolare per la scuola, con il Regolamento dell’Autonomia (DPR 275/’99) e la Legge n° 53 /’03.
eroga un servizio rivolto a molte persone che lo richiedono ed è aperto alla cogestione col privato. Proprio al settore semipubblico è stata rivolta una particolare attenzione relativamente alla qualità, sia a livello nazionale che internazionale. Il percorso realizzato in campo nazionale prende l’avvio nel 1995 con la Legge 273 che prevede la Carta dei servizi, ispirata sia a principi di carattere giuridico, come uguaglianza e imparzialità, che a principi aziendali, come la trasparenza, l’efficacia e la partecipazione. Prosegue con le profonde riforme della Pubblica Amministrazione, scandite dalla Legge Bassanini (N° 59/’97) e, in particolare per la scuola, con il Regolamento dell’Autonomia (DPR 275/’99) e la Legge n° 53 /’03.
L’orientamento alla qualità
giunge anche dall’Unione Europea attraverso i Memorandum del Consiglio Europeo,
le Carte di Lisbona, Stoccolma e Barcellona e la definizione dei tre obiettivi
strategici adottati congiuntamente dal Consiglio e dalla Commissione:
migliorare la qualità e l’efficacia dei sistemi d’istruzione e formazione,
agevolarne l’accesso a tutti e aprire l’Europa al mondo.
Da questi documenti, come pure
dalla Direttiva ministeriale n° 254 (novembre 2003) “Linee guida per una scuola
di qualità”, risulta evidente che la scuola dell’autonomia, senza gli
hanchoring referenziali offerti dalla struttura verticistica del vecchio
sistema, debba trovare “in situ” la bussola nell’acquisizione di specifici
modelli qualitativi.
Tra i diversi indicatori che
determinano la qualità di un sistema scolastico, emergono gli interventi di
integrazione, promossi a compensazione delle diverse forme in cui si manifesta
l’abilità di ogni alunno. La creazione di un ambiente scolastico adeguato ai
bisogni formativi di ciascuno è l’obiettivo ben definito per la scuola
dell’autonomia; si tratta di aiutare i giovani ad acquisire gli strumenti per
l’esercizio della cittadinanza attiva nell’ottica nazionale e sopranazionale.
La prospettiva attuale della
formazione, infatti, è la lifelong learning, da intendersi come la nuova
dimensione dell’educazione permanente, tracciata da Delors nel Rapporto UNESCO
del 1995 e poi presente in tutti i documenti dell’UE relativi alla formazione.
Si tratta di creare modelli ispirati alle teorie del capitale umano, che
permettano a tutti di impadronirsi degli strumenti utili ad acquisire la
capacità di riconversione imposta dalle nuove sfide del mondo del lavoro,
partendo dalla considerazione che, per l’individuo, emergono bisogni formativi
diversi nei vari momenti dell’esistenza. Al percorso lineare scuola-formazione/
lavoro-pensione, quindi, oggi si deve sostituire la formazione permanente,
anche secondo la proposta dell’UNESCO “One hour in day”, intesa come diritto
universale minimo alla formazione: tutti devono poter dedicare liberamente
un’ora al giorno, per tutto l’arco della vita, alla cura del proprio sviluppo
intellettuale e della propria socialità.
Per soddisfare tale bisogni,
però, si deve tener presente che la scuola da sola non basta più: sono
necessari nuovi spazi fisici, oltre agli sconfinati spazi virtuali, per
garantire a tutti e a ciascuno l’opportunità di accedere al sapere. Affinché si
possa realizzare un coordinamento psicopedagogico delle offerte delle varie
agenzie formative sociali, la scuola, luogo intenzionale di azione e ricerca
pedagogica, deve costituire il centro strategico della rete dei servizi.
Cerini, in un interessante
articolo apparso sul sito Ed.scuola, propone la costruzione di un POF
territoriale e già in tale direzione si muove la Legge 328 del 2000, che
prevede la realizzazione dei Piani territoriali di zona con il coinvolgimento,
oltre che della scuola e dei servizi sociali, anche del Terzo settore, nella
logica della progettazione partecipata, quale condizione post-moderna alla
promozione di interventi di qualità.
È così che il piano pedagogico si
intreccia con quello amministrativo e politico; la scuola – dove l’occhio lungo
della filosofia dell’educazione, che va oltre l’ovvio e l’immediato, diventa
pedagogia, cioè scienza poetica che si traduce in praxis didattica – attua
compiti di tutela di tutti i soggetti coinvolti e assolve particolare funzione
compensativa per i deboli che, più degli altri, rischiano di confondersi nella
complessità.
Ripercorrendo il concetto
teorizzato dai descolarizzatori (come Illich, Althusser, ma anche John Dewey),
si può certamente considerare limitante o non esaustivo il solo percorso
scolastico e appare consequenziale che dovrebbe essere la società “vera” il
posto per la concreta e rapida formazione dei giovani. Ma la suggestione della
società educante, come la romantica prospettiva delle “comunità” come luoghi
della libertà e della pluralità si scontrano con la crudezza e la quotidianità
di tanti giovani che non solo non possiedono le bussole per orientarsi
autonomamente, ma che vivono anche esperienze pedagogicamente non sostenibili,
in contesti familiari deboli o deprivati. Solo i ragazzi più forti, sostenuti
adeguatamente dalla famiglia, potrebbero muoversi nella complessità senza
cadere nei gorghi dell’approssimazione o della strumentalizzazione. La scuola
della società moderna si fondava sul principio “Dare di più a chi ha avuto
meno”, e questo principio non si è perso con la post-modernità, anzi, si è
arricchito dei valori della differenza e della pluralità.
La scuola nuova, quella della
Riforma, infatti, ha la chiave di volta nel concetto di personalizzazione.
Tutta l’architettura del sistema poggia su questo concetto: la persona opposta
all’alunno indistinto; si pone enfasi sull’essere umano piuttosto che
sull’obiettivo da raggiungere. Si tratta di leggere i bisogni di ciascuno e di
pensare e operare per la crescita individuale. Il principio dell’aderenza alla
persona, nella sua unicità e irripetibilità, si basa su principi
psicopedadagogici profondi e importantissimi, che rimandano a Morin, Gardner,
Ausubel, Bruner, Vigotstkij.
Il modo di pensare di ciascun
individuo è connotato da individualità e diversità. Il pensiero individuale è
il prodotto di una serie di diversificazioni prodotte dal modo di percepire,
pensare, apprendere, ricordare, disporsi verso il mondo e verso gli altri,
agire.
La dislessia denota un modo
particolare di essere persona; è una limitazione riscontrabile in individui
perfettamente dotati in ogni altro aspetto funzionale. Si tratta,
genericamente, di una difficoltà che riguarda la capacità letto-scrittoria e,
in molti casi, anche di calcolo. Tecnicamente, in sede diagnostica, si
distinguono con grande puntualità le diverse forme della dislessia, della
discalculia e dalla disgrafia, in funzione di un intervento didattico mirato e,
pertanto, più efficace ma, per comodità espositiva, si ricorre al termine
dislessia, inteso come comprensivo degli altri.
Poiché i bambini dislessici non
sono portatori di deficit intellettivi, sensoriali o neurologici, la diagnosi
non risulta intuitiva, né facile; spesso vengono etichettati come svogliati,
pasticcioni, distratti o disordinati. Si tratta di “bambini dotati, con
disturbo dell’apprendimento” e per questo, si usa definire questa patologia “il
paradosso”, in quanto il termine “dotato” appare inconciliabile con “disturbo
d’apprendimento”. Così non è.
Gli studi avanzati sulla
fisiologia del cervello hanno portato ad ipotizzare che, nei dislessici, sia
presente una lateralizzazione cerebrale alterata e questa ipotesi pare
significativamente suffragata dalla concomitanza di disturbi del linguaggio. Le
osservazioni compiute attraverso la tomografia assiale computerizzata
evidenziano che, nei dislessici, è evidente un’iperattività dell’emisfero
frontale sinistro e dell’area specifica dell’emisfero destro, e ciò dimostra un
lavorio compensatorio e l’adattamento del cervello che baypassa le carenze
nell’area del linguaggio. A queste conclusioni è pervenuto il Dott. Sherman del
Dyslexia Research Laboratory di Boston, i cui studi aprono grandi orizzonti
alla comprensione delle potenzialità dei dislessici.
In Italia, la dislessia è oggetto
di studio da pochi anni. L’AID, Associazione Italiana Dislessia, risale appena
al 1997; si tratta di una ONLUS che si propone il compito di sensibilizzare
l’opinione pubblica diffondendo informazioni sulla dislessia e di promuovere
formazione specifica nei servizi sanitari e nella scuola. Non sono stati ancora
compiuti monitoraggi sull’intero territorio nazionale, ma la stima è di almeno
1.500.000 di soggetti affetti da dislessia evolutiva, la forma più frequente
della manifestazione, che compare fin dal primo approccio al segno grafico e che
comporta la difficoltà di costruire l’apprendimento funzionale di base, una
grande esposizione alla frustrazione e la mancata strutturazione
dell’autostima. L’altra forma della dislessia, quella acquisita, compare come
la conseguenza di un evento patologico che colpisce le aree corticali deputate
alla transcodifica. È definita dislessia dell’adulto, perché di solito è
determinata dall’invecchiamento e dalla conseguente lesione dell’apparato
corticale o vascolare. L’intervento compensatorio è estremamente differente
nelle due forme di dislessia: nella forma acquisita, è necessaria la
riabilitazione, in quanto si tratta di sostenere il processo di bypass delle
funzioni cerebrali e di recuperare apprendimenti preesistenti; nella dislessia
evolutiva, quella che incontriamo frequentemente nei nostri banchi scolastici,
si tratta di guidare alla conquista della transcodifica e di promuoverne
l’automatizzazione.
Gli elementi per riconoscere la
dislessia sono catalogati nel DSM IV – il manuale diagnostico e statistico dei
disturbi mentali – e nell’ICD 10, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità,
che contiene la classificazione delle sindromi e dei disturbi psichici e
comportamentali. In sintesi, la si individua quando nel soggetto non concorrono
altri fattori, quali, ad esempio, deficit intellettivi, sensoriali o gravi
deprivazioni culturali.
La dislessia non si cura, ma se
adeguatamente gestita, può addirittura diventare un potenziale e il successo
raggiunto in tanti campi da persone affette da dislessia ne è la prova
tangibile.
La classificazione di Ronald
Davis, ingegnere, scultore e creatore di un metodo didattico fondato sulla
propria personale esperienza di dislessico, aiuta a comprendere le
caratteristiche dei dislessici. Di solito, si tratta di bambini intelligenti,
molto loquaci, abili nella manipolazione e nel calcolo orale, con vena
artistica (teatro, musica, sport) oltre che, come si è detto, goffi, impacciati
e confusi. La caratteristica particolare è che il disturbo e la difficoltà
tende a ridursi all’uscita dalla scuola dell’obbligo se il soggetto è stato
sostenuto adeguatamente, fino ad azzerarsi quando il giovane trova “la sua
passione”. Quando un dislessico non è più costretto a fare ciò che gli viene
richiesto dalla scuola, può cominciare a dispiegare le ali, ad approfondire
aspetti specifici del sapere e, come direbbe Moreno, avvia il processo di
manifestazione del personale potenziale creativo attraverso la liberazione
della spontaneità, fino ad allora compressa nella miope didattica scolastica.
Sono ormai numerose le testimonianze di dislessici famosi che confermano queste
osservazioni: tra i contemporanei, ricordiamo il più famoso, Albert Einstein,
ma anche Van Gogh, Picasso, Robbie Williams, Tom Cruise, Cher, Walt Disney,
Rockfeller. Gli esempi sono molti e inducono ad una riflessione circa la
caratteristica sostanziale dei dislessici: sono dotati di pensiero divergente e
nei contesti formativi di base, nelle nostre scuole, non ha ancora trovato
piena cittadinanza l’educazione alla creatività.
Il compito della scuola di fronte
a tale realtà è aperto, perché si è appena avviato il discorso in tal senso. La
maggior parte dei docenti della scuola italiana ha trovato solo recentemente,
nelle raccomandazioni alle Indicazioni nazionali per la Scuola primaria, un
primo, chiaro riferimento alla dislessia e alle metodologie didattiche di cui
necessita. È attualmente al lavoro la VII Commissione istruzione pubblica, beni
culturali del Senato per esaminare il disegno di legge n° 1838, presentato il
19 novembre 2002, recante Nuove norme in materia di difficoltà specifiche di
apprendimento. Riferimento molto importante costituisce la nota del Capo
dipartimento per l’istruzione, Pasquale Capo, sugli esami di stato degli
studenti affetti da dislessia, pubblicata lo scorso marzo, come le note a firma
di Mariolina Moioli, della Direzione generale per lo studente. In generale, nei
succitati documenti si fa riferimento al bisogno di creare situazioni
didattiche stimolanti e di ricercare canali d’apprendimento diversi dalla
scrittura di testi o da verifiche scritte a vantaggio di metodi basati sulla
multisensorialità, sul manipolare, operare, costruire. Non solo, ma si
raccomanda anche ai docenti di creare una relazione comprensiva e attenta a
cogliere i bisogni formativi dell’alunno.
La necessità di acquisire gli
strumenti della lettoscrittura può essere soddisfatta con strategie
alternative; il dislessico “pensa” in modo diverso e i docenti, responsabili del processo di apprendimento e
della costruzione del valore aggiunto alla persona, devono individuare i
compiti di sviluppo cui ciascuno, nella sua irripetibilità, è chiamato.
La lingua italiana ha una
struttura che risulta molto facile da apprendere: ogni grafema ha
corrispondenza con un fonema e sono pochi i segni complessi, a differenza di
altre lingue che risultano molto più ostiche, come l’inglese. Il bambino
dislessico avrà bisogno di tempi più lunghi e dovrà imparare “trucchi” per
legare le lettere e decodificarne il senso; dovrà scoprire i sistemi utili a
controllare la respirazione e l’insofferenza, trovando conforto in attività
sempre nuove e accattivanti.
E qui entra in gioco il
protagonismo dei docenti nelle scelte contenutistiche e metodologiche, la
personale capacità di appassionare alla scuola e di favorire la motivazione
degli alunni, perché, come dice Marco Lodoli, “ognuno insegna ciò che è”.
Insegnare, cioè “lasciare un
segno”, come ci ricorda Guido Petter nella sua Valigetta, oggi deve significare
anche proporre azioni didattiche integrate al contesto sociale, ai nuovi
linguaggi e alla spendibilità dei saperi, e costruite sui bisogni del singolo
bambino.
Con i bambini dislessici, si
tratta di progettare percorsi didattici legati al corpo e alla gestualità,
attrezzare luoghi per la decodifica dei linguaggi grafici e pittorici,
informatici e motori. È molto importante lavorare sulle abilità visuo-motorie,
usare il gioco per “vivere la metafora del mondo” (Sidoti), per imparare senza
aver paura e pervenire alla conquista del metodo di studio. L’obiettivo di chi
lavora con un bambino dislessico è quello di vedere che da solo riesce a
comprendere, schematizzare e trattenere in memoria qualunque testo. Per
promuovere questa autonomia, è necessario offrire modelli di riformulazione del
testo: dalla sottolineatura policroma alla schedatura, alla sintesi, alla
costruzione delle mappe concettuali. Dobbiamo fornire gli strumenti per
dribblare la difficoltà. Vigotstkij ci soccorre con la sua teoria, quando
descrive l’arco di potenzialità d’apprendimento di cui il bambino, in un
momento preciso, dispone; si tratta di cogliere la zona di sviluppo prossimale
e guidare al nuovo compito di padronanza. Può rivelarsi molto importante il
ricorso a materiali strutturati da costruire, comporre, smontare – di
montessoriana ispirazione – e il costante rinforzo visivo attraverso la
cartellonistica, secondo la pratica di Celestin Fernet. L’esperienza di
Feuerstein, con la teoria della modificabilità cognitiva strutturale, pare una
naturale evoluzione dei grandi maestri
di ieri, cui guardare con fiducia.
Occorre ricordare sempre che il
bambino dislessico segue percorsi mentali molto diversi da quelli che ci sono
noti e che il nuovo compito della didattica è affinare l’abilità percettiva e
dinamicizzare le offerte didattiche, peraltro ormai completamente liberate da
vincoli normativi e lacciuoli soffocanti. Quando ci saremo affrancati dal peso
della “quantità” (dei risultati da dimostrare, della nostra insicurezza),
potremo intuire i percorsi della “Qualità” e coglieremo la bellezza della
contraddizione.
Solo dal punto di vista
rigidamente quantitativo, l’individuazione di una contraddizione indica un
errore; la qualità, invece, non solo la ammette, ma attraverso la
contraddizione, cresce. Walt Whitman, un famoso dislessico, diceva infatti: “Mi
contraddico, sì mi contraddico; contengo moltitudini.”
La scuola deve personalizzare i
suoi percorsi e permettere a ciascuno di scalare la sua montagna e di spiccare
il volo verso quel domani che noi, troppo adulti, possiamo solo immaginare.
La questione dell’integrazione
dei bambini diversamente abili, pertanto, si innesta all’esigenza generale di
offrire, come diceva Husen, “opportunità uguali di trattamento ineguale” a
tutti e a ciascuno.
“No child left behind”, che
Tullio De Mauro rese con “Non uno di meno”, appare lo slogan della scuola della
post-modernità e l’obiettivo assoluto sembra quello di aiutare gli alunni a
crescere armoniosamente sviluppando il potenziale critico, creativo e dinamico
del pensiero, per diventare giovani dotati di strutture logiche autogenerative,
quali strumenti per l’esercizio della cittadinanza attiva.
Edgar Morin parla di costruire
schemi cognitivi riorganizzatori quando, mutuando Montaigne, raccomanda di
promuovere la crescita di teste ben fatte, e non ben piene. La scuola deve
formare “le menti”, guardando ai bisogni reali degli alunni, cosa che, già
molto tempo fa, Don Lorenzo Milani raccomandava a tutte le professoresse.
Ci accorgeremo presto che i
bambini dislessici, più degli altri, fanno fatica a scalare la loro montagna
ma, una volta in cima, anche grazie a chi gli avrà fornito le armi per credere
e lottare, più degli altri apriranno le ali, perché, come titola Rossella
Grenci, “le aquile sono nate per volare”.
Ornella Castellano
▪ n.6 - Febbraio 2006 Anno XV di
Scuola & Amministrazione, CARRA Editrice
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